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Un minuto davanti allo specchio

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Mia madre sarà felice.

Quando ero ancora alle sue dipendenze le piaceva citarmi non so chi, Fromm forse, o Quoist. Diceva: “Un minuto davanti allo specchio, dieci davanti a Dio.” Anche la citazione, probabilmente, è imprecisa. Mi scuso con Fromm (e con mia madre).
Chissà come mi ero combinata quel giorno che a tavola sfoderò per la prima volta questa frase, convinta che argomentare le sue ragioni potesse aiutarla nella mia educazione ai valori.
Certo è che, dinanzi alla sua semplicità irriducibile, ai collant color carne che solo molto più tardi avrebbero osato il nero, ai capelli rigorosamente tenuti da una molletta senza vezzo, al viso irrinunciabilmente nature, qualsivoglia intervento atto a esprimere bellezza, rincorrerla o evidenziarla, pareva inesorabilmente una perdita di tempo. Non solo inutile, ma perfino ai limiti del moralmente accettabile.
È per atteggiamenti come questo che, quando mia sorella decise di farsi i buchi alle orecchie, dovetti lottare con tutte le fibre del mio essere per trovare il coraggio di domandarle: “Allora potrei usare io gli orecchini a clip che ora lei non utilizza più?”
Di lì ai fori, anche sui miei lobi, non passò poi molto. A volte è come fare un’incisione su un palloncino d’acqua, coi genitori: compiuto il primo gesto prode, il fiotto viene da sé.
E così fu facile, negli anni a venire: allungare progressivamente gli orecchini, accorciare – parallelamente – le gonne, colorarmi i capelli, farmi il piercing al naso. A quel punto, ormai, la donna non aveva più forze per ribattere.

Fonte: www.esaldi.it

I tempi dei Paninari che bramavo le calze Burlington ma non avevo il coraggio di chiederle, che avrei voluto i pantaloni arrotolati per farle vedere, che il cerchietto m’inseguiva fedele come un’areola sul capo mentre avrei amato sciogliere le chiome e vederle sfuggire sulla fronte in tutta la vanità concessa a un’adolescente, erano ormai lontani. Ero riuscita, in qualche modo, ad agghindarmi come volevo.
Piuttosto, mi domandavo perché non le interessasse minimamente mettere in luce un po’ della sua bellezza, anziché zittire la nostra. Perché non andasse mai dal parrucchiere, per dirne una. Non conoscesse il significato di parole come “mascara” e “rossetto”, si accontentasse di Labello e Nivea (forse nemmeno), e un solo, sottile filo di perle, onorasse il candore del suo collo unicamente nel giorno preposto a qualche sacramento (la mia Prima Comunione, la Cresima, quelle dei miei fratelli e, più tardi, le nostre nozze).
Ora, a distanza di anni che posso contare usando le mani di tutti i figli (e le mie), mi ritrovo a correre verso l’asilo con una maglia da casa, delle braghe nere elasticizzate, la giacca che maschera lo scempio come può, in continuità con l’attività frenetica che stavo compiendo: ossia passare l’aspirapolvere al volo mentre Isabelle resiste nel box, per non sacrificarci il fine settimana.
Arrivo anche leggermente sudaticcia. Che, al confronto, la mia genitrice potrebbe vantare un aspetto da rivista.

Capisci di aver toccato il fondo quando non sei truccata, non ti sei vestita nemmeno per uscire, non hai messo le lenti a contatto, e hai omesso perfino la sola cura che abitualmente ti riservi: la crema per il viso.
E, rientrando con tanto di figlia quattrenne versione rivisitata di Shirley Temple, tenti la carta dell’autoaccettazione rovistando nel suo amore incondizionato: “Sarah, come sto? Sono brutta con sti pantaloni?”
“Sì, mamma. Sei orribile.”
(Sui minuti davanti a Dio sto ancora lavorando…)

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